Bisogna riconoscere a Elon Musk e al suo staff un coraggio personale e imprenditoriale non comune, tipico degli americani e invece piuttosto sconosciuto (e non certo incoraggiato) in Europa (per non parlare dell’Italia). La considerazione nasce da uno spunto di cronaca del Grunheide, dove procedono i lavori per la Giga Berlin.
Il Ministero per l’Agricoltura e la protezione dell’Ambiente del Land Brandeburg ha approvato un’estensione dei lavori presso la fabbrica di altri 83 ettari “per la realizzazione di condutture ed edifici “assolutamente necessari” per la realizzazione della fabbrica. Si tratta di terreni coltivati a boschi “man-made”, quindi ripristinabili, che Tesla si è impegnata a riforestare e riqualificare non appena terminati i lavori che, è specificato nel provvedimento “potranno essere svolti solo durante la settimana e dalle 7 del mattino alle 8 di sera” e con particolare riguardo per la riduzione di rumori per non distrubare la fauna locale.
Ma il passo principale del comunicato, quello che inorridisce e meraviglia nello stesso tempo è il finale: “Tesla sta continuando i lavori nella fabbrica assumedosi i propri rischi, perché se non si dovesse arrivare ad un’approvazione finale del progetto, tutti gli edifici già costruiti dovranno essere abbattuti e le aree ripristinate”.
Ora, ve lo immaginate un investitore europeo, o anche asiatico, che accetti di impiantare una fabbrica da 12.000 posti di lavoro con l’incertezza dell’approvazione finale? Solo un visionario con la voglia di sfidare il mondo e le convenzioni avrebbe osato.
Tanto per farsi una risata, abbiamo immaginato cosa sarebbe successo se Elon Musk avesse deciso di realizzare la Giga Berlin, che so, a Torino, a Milano o a Taranto. Il primo colloquio con le autorità sarebbe probabilmente andato così:
“Buon giorno sono Elon Musk, costruisco auto, razzi e batterie”
“Io auto che si chiamano Elon non ne ho mai sentite, forse una volta c’era una Lotus…”
“No, guardi quella era la Elan, le mie si chiamano Tesla. Vorrei fare una fabbrica qui, in Italia”
“Una fabbrica di auto in Italia? Ma guardi che qui stanno chiudendo tutto, l’Alfa Romeo non esiste più, la Lancia neanche, le Fiat le fanno in Turchia…”
“Le mie auto sono diverse, vanno a batterie e non inquinano…”
“Per carità, le batterie, e dopo dove le mettiamo? Lo sa lei che un’auto elettrica inquina dieci volte di più di un diesel?”
Non pensiate che siano battute fuori posto, perché la lungimiranza dei nostri amministratori sul tema auto è stata sottolineata in passato da molti episodi che dicono tutto. Uno fu il caso dell’Alfa Romeo che, nel 1986, la Ford voleva comperare e rilanciare, ma venne invece ceduta dallo Stato alla Fiat (che all’epoca s’impegnò a non smantellare gli stabilimenti e non licenziare gli operai). Basta andare a vedere cosa è rimasto oggi ad Arese per aprire gli occhi.
Il secondo episodio è meno conosciuto ma altrettanto esemplificativo. La Toyota, sul finire degli anni ’90, cercava un sito in Europa per impiantare una megafabbrica che avrebbe prodotto la Yaris per tutti i mercati del Vecchio Continente e aveva lanciato un’offerta a tutti i Paesi della Comunità chiedendo di avere condizioni favorevoli di acquisto dei terreni, dell’energia e contrattuali. Tutti risposero al bando, e alla fine vinse la Francia (Valenciennes). Solo un Paese non si degnò di rispondere all’invito.
Secondi voi, quale fu?