È opinione comune che i biocarburanti, proprio in forza di quel ‘bio’, siano green, puliti, non emettano gas climalteranti, polveri sottili e siano la soluzione a tutti i problemi di inquinamento e riscaldamento del pianeta. Non è così.
Sebbene in alcuni ambiti, come il trasposto pesante e il trasporto aereo – dove si fa largo uso di combustibili fossili – possano esser una valida alternativa, non lo sono altrettanto nella mobilità leggera, dove esistono soluzioni più sostenibili.
Ne abbiamo parlato con Carlo Tritto di Transport & Environment, Federazione Europea per il trasporto e l’ambiente.
“Il problema è che i biocarburanti mantengono comunque un impatto sull’inquinamento locale essendo figli del processo di combustione. – ci spiega Carlo Tritto – Rimangono tutte le emissioni e le polveri che hanno un impatto dannoso sulla salute dei cittadini. Non possono quindi essere considerati delle soluzioni pulite, specialmente in contesti urbani dove la popolazione è maggiormente esposta. Il biocarburante riduce in parte le emissioni di CO2, ma inquina come i carburanti fossili.”
“In un’analisi realizzata dall’International Council on Clean Transportation, si dimostra che la combustione di carburanti, siano essi fossili, sintetici o biologici, continua ad avere un impatto molto significativo sull’inquinamento atmosferico. Ogni piccola molecola che viene emessa ha un impatto nocivo sul sistema cardiovascolare, sui sistemi circolatori e sui sistemi cerebrali. Come associazione ambientalista non siamo contrari a priori ai biocarburanti, ma – essendo limitati i volumi sostenibili di tali carburanti – li vediamo solo per applicazioni di nicchia, come ad esempio il trasporto aereo di lunga percorrenza.”
I biocarburanti sono ‘bio’ solo perché di derivazione biologica e non fossile, però a livello di impatto ambientale i conti non tornano. Se disboschiamo una porzione di foresta, che ha una funzione determinante nell’assorbimento di carbonio, per coltivare olio da palma per biocarburanti, il bilancio finale in termini di emissioni di CO2 è di fatto triplicato.
E non va meglio con le benzine sintetiche, i cosiddetti E-Fuel, carburanti di sintesi generati con processi estremamente molto energivori. Nei test eseguiti in laboratorio e in condizioni reali, i dati rivelano come i livelli di inquinamento da NOX (Ossidi di Azoto) siano pressoché identici.
Ma tornando ai biocarburanti, servono grandi quantità di terreno da destinare alle piantagioni per biodiesel, sottraendole a foreste o coltivazioni alimentari.
C’è bisogno di una quantità di terreno immensa per sostituire i consumi fossili nel settore dei trasporti. Si sprecano terreni, risorse ed energia per spostare di pochi chilometri un’auto a combustione. Lasciando i terreni alle loro naturali coltivazioni, la CO2 risparmiata all’anno arriva a essere doppia o addirittura tripla, se una piccola pozione di terreno viene destinata a fotovoltaico. I risparmi in termini di CO2 sono significativi perché c’è un uso più efficiente dell’energia e il terreno è lasciato al suo ruolo fondamentale cioè quello di creare biodiversità e assorbire CO2.
“Oggi in Italia processiamo 1,7 milioni di tonnellate di biocarburanti che alimentano circa il 4% del fabbisogno energetico del settore trasporti. -continua Carlo Tritto – Ci rendiamo conto che per soddisfare l’intero fabbisogno avremmo bisogno di moltiplicare per 25 volte la produzione? E questo con implicazioni in termini di diboscamento, deforestazione e impatto ambientale, che non sono sostenibili”
Senza dimenticare che l’utilizzo di terreni per biocarburanti, li sottrae a coltivazioni per utilizzo alimentare, affamando le popolazioni più povere con minori risorse economiche.
“Noi abbiamo fatto una campagna Food and not Fuel. – ci spiega ancora Carlo Tritto – Perché se da un lato ci sono i produttori di carburanti che hanno degli obblighi di produzione di biocarburanti e sono pronti a pagare prezzi esorbitanti pur di non incorrere in sanzioni, dall’altro ci sono le popolazioni che devono coltivare i terreni per mangiare. Ma i terreni sulla terra non sono illimitati. Ci sono foreste che non vanno toccate perché hanno una funzione fondamentale di assorbimento di CO2 e poi ci sono le terre necessarie per coltivare il cibo per una popolazione mondiale che è in crescita. È chiaro che mettere in competizione il settore energetico con quello alimentare ha il rischio principale di far aumentare i prezzi dei beni indispensabili, spostando intere popolazioni in povertà alimentare.”
Un’alternativa valida potrebbero essere gli oli alimentari di scarto, ma il loro problema è la scarsità. “Non mi risulta che l’olio delle nostre patatine soddisfi la richiesta di biodiesel dell’Italia o dell’Europa, anzi. – sottolinea Tritto – Importiamo grandissime quantità di oli esausti dall’estero. Fare biodiesel da olio esausto di cottura ha un potenziale di riduzione delle emissioni che arriva a circa il 90% rispetto al valore di riferimento del fossile ma non ne abbiamo quantitativi sufficienti. Oggi, in Italia, l’olio esausto di cottura è la prima materia da cui si produce biodiesel, per oltre 500.000 tonnellate, un terzo del totale. In realtà se ne raccoglie davvero poco, circa 40.000 tonnellate. Tutto il resto è importato dalla Cina.”
E la frode è dietro l’angolo. Infatti, questi biocarburanti, in virtù della loro maggior sostenibilità in quanto prodotti di scarto, godono di incentivi maggiori che li rende molto appetibili. E allora perché non prendere l’olio di palma grezzo etichettarlo come olio esausto di cottura e accaparrarsi il doppio degli incentivi?
“La Commissione Europea, stimolata della Germania, ha aperto un’investigazione su questa pratica scorretta. – commenta infine Carlo Tritto – Nell’arco degli ultimi anni i consumi e la domanda per questo tipo di materie prime sono aumentati in un modo esponenziale ma la capacità di generare le quantità di energia con i nostri scarti non è non è sufficiente.”
Di questo e di altro ne abbiamo parlato nella nostra diretta di lunedì 13 maggio